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Eldorado miti e vicende

 

 

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Un Articolo di Ivano Sartori e pubblicato da “Gente Viaggi” (Rusconi editore).

 

 

 

   

Dispongo di quest'articolo grazie all'interesse del sig. Cazzulani, che me l'ha inviato. Si tratta, a mio avviso, di una simpaticissima ed al contempo istruttiva (fattori che non è sempre facile affiancare) analisi sul noto mistero dell'Eldorado.

 

 

 

Isole del tesoro, eldoradi, montagne incantate: il fascino dei luoghi fantastici, creati dalla letteratura e dalla leggenda, attraversa i secoli. Si aprono mappe polverose e comincia un cammino tra nomi di cui spesso non si sa nulla. Abbiamo ricostruito la geografia immaginaria di questi luoghi alla caccia di ricchezze perdute. Ne risulterà uno "stralunato" atlante di suggestiva precisione.


Una volta l'anno un cacicco dei dintorni di Bogotà, dopo essersi spalmato ben bene tutto il corpo con una specie di resina, si faceva ricoprire dalla testa ai piedi di polvere d’oro. Accompagnato dal suo popolo si tuffava nelle acque del lago più vicino e vi restava, semisommerso, a crogiolarsi al sole fino a quando il corteo che lo accompagnava non avesse esaurito gli inni di circostanza. <<El Dorado>> (l'uomo d'oro) gridarono, dandosi di gomito, i provinciali conquistadares del Leon e della Castiglia alla vista abbagliante dell'insolita e regale balneazione. E il nome tanto spontaneo rimase. Il fatto ci é raccontato da padre Simon, storico del Venezuela, secondo il quale a inventarsi tutto, e con ciò il mito potente dell'Eldorado, sarebbe stato un conquistador più fantasioso degli altri, tale Belalcazar. C'e chi ritiene che non sia vero niente e che tutta la favola sia il più bel frutto d’importazione dalle Americhe del Settecento, ammalato d'esotismo. E il più tossico. Gli stupefatti spagnoli, continua il racconto incurante della propria veridicità, si ricordarono con subitanea lucidità d’essere lì anche allo scopo di estirpare la "malapianta" del paganesimo. Ravvisando nella cerimonia gli estremi dell’idolatria (e intimamente quelli dello sperpero), requisirono gli oggetti di culto a cominciare dagli ori votivi. Persino le lamine d'oro che ricoprivano le pareti dei templi. Per avere un’idea della spoliazione si vada a quella descritta da fra Bartolomé de las Casas (1474 - 1566), primo vescovo d'America, nel suo libro "La leggenda nera". Al cinefilo inveterato non sfuggirà che la pratica pagana d’indorare il corpo umano é stata riproposta in anni recenti dal film "Goldfinger" con esiti letali per l'incauta cavia.

 

 

 

 

L'Eldorado, una foresta impenetrabile a est delle Ande.

 

Ma dov'erano capitati i nostri conquistatori? L'Eldorado, questa terra di esclamativa toponomastica, sta in un luogo intoccabile dell’America meridionale. Le antiche mappe dei gesuiti lo collocano nella Tierra incognita, l'impenetrabile foresta vergine che si estende a est delle Ande peruviane. Lì, oltre il Gran Pajonal, sorgerebbero le mitiche Sette Città di Cibola. Le approssimative carte dei conquistadores spagnoli dei secoli XVI e XVII lo indicano anche col nome di "Manoa" e lo vogliono fra il rio delle Amazzoni e l'Orinoco, nel territorio che corrisponde oggi alla parte orientale del Venezuela. Per intenderci, nella regione più insalubre dell’intero continente americano: umidità da far impazzire gli igrometri, mosquitos e piogge torrenziali. Molti geografi lo confondono facilmente col Perù.

 

La conquista spagnola scatena la caccia all'oro.

 

Va da sé che l'economia dell'Eldorado si reggesse sulle attività legate all’estrazione, lavorazione e commercio dell'oro. Il commercio a senso unico di questo metallo iniziò solo con l'arrivo degli spagnoli. Prima, l'oro scorreva nei fiumi, quasi inconsapevole della propria importanza, vile come tutti gli altri metalli. Quando gli Incas cominciarono ad avvertirne la pericolosità (una specie di radioattività dell'epoca) ne affondarono d'un sol colpo cinquecento tonnellate. Ma ormai avevano gia commesso l'errore di regalarne ai visitatori dieci volte tanto. Questi avevano cominciato a importunarli con questa mania dell'oro dal 1544. Il primo era stato Orellana, luogotenente di Pizzarro "la belva". Incontrò le Amazzoni, le suscettibili donne guerriere, e fu costretto a ripiegare. La batosta fu tale che non conservò né la memoria del luogo né la voglia di ritornarvi. Secondo altri storici, già nel 1531, a Ordaz, inviato di Cortes che lo attendeva al Messico, era andata altrettanto male. Sir Walter Raleigh, sognando Manoa ricoperta d'oro, ci provò nel 1595. Salpò da Londra, attraverso il mare del Buio e finì per farsi ammazzare dalle silenziose e perfide cerbottane della foresta scura dell’Orinoco. Ciò nondimeno gli instancabili avventurieri continuavano a intenerirsi per le <<lacrime del sole>>, il dio Sole che in quella terra piangeva a dirotto. Li animava il calcolo, la convinzione (ancor oggi attuale) che alla fonte le merci costino meno. E poi in Europa, dopo la rivoluzione dei prezzi provocata dalle rimesse d'oro americane, non si poteva più vivere senza la disponibilità di ingenti scorte del pregiato metallo. Bisognava a tutti i costi scoprire il luogo dove bastava chiederlo per ottenerlo. Con le buone o con le cattive.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando si é colpiti da quella brama d’oro, che chiamano efficacemente febbre, e le conoscenze geografiche sono rudimentali, può accadere di perdere del tutto l’orientamento. "L'armada conquistadora" finì per disperdersi ai quattro angoli delle Americhe. Coronado sconfinò nell'Arkansas, allora ben lungi dal chiamarsi in questo modo, e si perse nel Grand Canyon del Colorado. Cabeza de Vaca si abbrustolì al sole della California, prima curato e sfamato dagli apache poi inseguito da altri indiani meno cordiali. Nell'ultima sequenza della sua avventura lo vediamo sfrecciare in fuga mentre si sfila la pesante corazza per scappare più disinvoltamente. Un disastro, dunque: l’oro dell’Eldorado non bastò mai a ripagare delle spese di viaggio i suoi spericolati cercatori.

Candide soggiornò nell'Eldorado (ce lo riferisce Voltaire) a metà del Settecento in
una pausa del suo vagabondare terracqueo. Passeggiando per le strade lastricate di
smeraldi s'accorse della differenza con le opere di urbanizzazione della sua vecchia Europa e ne prese nota. Non era forse lì per conto del filosofo Leibniz che voleva dimostrare che questo è il migliore dei mondi possibili? Del gruzzolo di souvenir raggranellato a testimonianza dei benefici del turismo esotico ("è proprio vero che bisogna viaggiare", aveva esclamato con convinzione), venne comunque derubato per via. Nel bel mezzo di questo secolo ci riprovò testardamente un ex impiegato di banca, l’americano Leonard Clark, che intitolò poi il suo vittorioso reportage "I fiumi scendevano a Oriente". Anche lui fu costretto a sparpagliare i venti chili d'oro raccolti sotterrandoli qua e là per il deserto (e, forse, nella fantasia febbricitante delle ultime pagine), in cambio della pelle.

 

Il filone d'oro attraversava le sette antiche città

 

Lo consolò il fatto di aver ritrovato sei delle sette antiche città dell'Eldorado: Santiago de las Montanas, San Francisco de Borja, Legrono, Jaen de Bracamoras, Bajadeloro, Zamora. Mancò all'appello solo San Reys. Clark si guadagnò per giunta la riconoscenza del governo peruviano per il rinvenimento di qualche polla di petrolio e rintracciò il filone aurifero coi diritti d'autore. Per ritrovare l'Eldorado occorrono fede, perizia, buoni fucili... e tanta fantasia. <<Soltanto l’occhio di un esperto», avverte Clark al cospetto delle minutaglie delle antiche città, <<poteva ricostruire in quei luoghi l’esistenza di un antico centro minerario; infatti per chi non fosse andato lì con lo scopo preciso che avevo io, il paesaggio poteva avere l'aspetto di una zona disseminata di erosioni>>.

                                                                                                 Ivano Sartori
 

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