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Gallerie e strati auriferi.

 

 

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G. Pipino qui ci descrive le dichiarazioni (spesso alquanto azzardate o inesatte) degli storici sulla presenza di antichissime gallerie per cercare oro nella Bessa, poi le commenta dettagliatamente e infine ne riporta i dati invece dimostrati.  

 

Alcuni Autori accennano alla "presunta presenza" di gallerie nella Bessa, senza darne particolari e talora esagerandone l’estensione. Nella relazione del 1786 da me pubblicata (Pipino 1989), Nicolis di Robilant afferma: "...al Cerione s'hanno gallerie spinte nel vivo de strati di que' colli che furono già ne tempi antihi condotte per l ’oro .... A Montegrande al di la della Viona, sotto un colle aprico si vedono bocche di gallerie al posto detto il Canei”; poi, nella pubblicazione a stampa (1786) dice, tradotto dal francese: "...... in queste colline, sotto a loc. Cerrione, si vedono delle gallerie e dei pozzi che si 

pretende siano stati delle delle miniere d'oro, ma nessuno fino ad ora ne ha fatto la pur minima ricerca”. Quintino Sella (1864) afferma che "...il sottosuolo della Bessa è in vari punti oggidì ancora traforato da molte gallerie alte e vaste, che si possono percorrere per centinaia di metri”. Rolfo (1964) racconta che "...in più parti della Bessa vi sono dei pozzi caratteristici profondi da 5 a 6 metri con apertura variabile da 2 a 3 metri di diametro, costruiti accuratamente in pietra con scalinata laterale a chiocciola. Giunti sul fondo, e tolta una grossa pietra laterale, che serviva da porta d ’ingresso, si dipartono varie gallerie piuttosto strette con il soffitto lastricato di pietre piatte malsicure”; queste gallerie sarebbero servite di comunicazione fra i vari cantieri delle antiche coltivazioni aurifere, e ne erano note " ... un po' ovunque, per esempio nella cava del Sig. Astrua". Altre gallerie avrebbero invece collegato la Bessa con la Serra: "...una di queste si trova poco dopo il castrum di Mongiovetto e l'altra, detta della Piatola, oltre Cerrione". Marco (1940) ed altri Autori negano l’esistenza di gallerie, per non averne mai viste. La recente carta archeologica, commissionata dalla Soprintendenza Archeologica, ignora completamente l ’argomento.
La cava del sig. Astrua si trovava presso Villa Appiotti, in territorio di Riviera di Zubiena, e in essa sono anche segnalati grossi muri a secco alla base di un cumulo di ciottoli (TORRIONE 1951). La foto di un "pozzo di accesso ad una aurifodina in località "Prato della Regina" è riportata da CLEMENTE (1971), che in una piantina lo ubica a sud-sud-est di Mongrando, ma non ne parla nell’articolo, nel quale riprende e amplifica le fantasticherie di ROLFO (1966) sul presunto castelliere e sulla fantomatica popolazione dei Vittimuli.
MICHELETTI (nel 1976 e 1981) confonde con gallerie i canali di deiezione che furono predisposti nelle discariche (delle aurifodine, nota aggiunta di Z.G.) per agevolare l’allontanamento dello sterile e vi immagina delle volte che, secondo lui, non sono più visibili perché crollate o erose in superficie. Sostiene, inoltre, che i massi costituenti le pareti e le volte sono tenuti insieme da un impasto di sabbia e pece, e per illustrare la tecnica costruttiva e la sua antichità si sbizzarrisce in una serie di articoli, nei quali convivono elementi reali con altri più o meno verosimili o del tutto incredibili, che pure pure vengono accolti nella rivista tecnica "Gallerie e Grandi Opere Sotterranee": va detto che Micheletti, allora Ingegnere Capo del Distretto Minerario di Torino, era stato compagno di studi del direttore della rivista, l'ing. Alberto Motta, e godeva allora di un certo prestigio, non solo grazie alla sua carica istituzionale, ma anche per alcune pubblicazioni tecniche giovanili, nelle quali dimostra un buon ingegno. In realtà, nel corso dei numerosi sopralluoghi compiuti assieme nella Bessa, lo stesso Micheletti poté mostrarmi soltanto, presso il bivio per Magnano, poche tracce di idrocarburo su un tratto di parete, la quale era quasi completamente coperta da una materiale eterogeneo di discarica ed era evidente che si trattava di nafta proveniente dallo stesso materiale o dai mezzi che l’avevano depositato.
Notizie attendibili del ritrovamento di brevi gallerie sono invece riportate dagli SCARZELLA (1973) e da CALLERI (1985). Secondo i primi autori, verso la metà degli anni ’60 (del Novecento), nel corso dello scavo di un pozzo presso la località Chalet Bessa, a sud di Mongrando, sulla strada per Zubiena e Vermogno, fu trovata, a 7 metri di profondità, una piccola camera dalla quale si dipartivano tre gallerie e, nel 1972, nel corso dello scavo di un altro pozzo, a 7 metri di distanza dal primo e a 5 metri di profondità, fu incontrato un cunicolo, con forte pendenza, che da una parte si dirigeva verso la camera suddetta, dall’altra verso una grossa buca, distante circa 40 metri, delimitata da muri a secco ma completamente riempita da massi e terriccio. Del primo ritrovamento ne parla anche il secondo Autore, il quale specifica che gli scavi interessavano un "... banco di diluvium apparentemente intatto"; l'apertura di quella che sembrava una galleria, secondo una sua successiva comunicazione personale, era stata segnalata dall’altra parte del torrente Olobbia, di fronte a Filippi e, apparentemente, interessava lo stesso orizzonte stratigrafico che prosegue verso la sorgente solforosa. Due altre gallerie erano state accertate sotto il terrazzo su cui sorge la cascina Piattola di Cerrione: la prima era stata otturata per timore che potesse compromettere la stabilità dell’edificio sovrastante, la seconda, distante qualche centinaio di metri, a ponente della cascina, era parzialmente ingombra di terra franata, ma il proprietario del terreno assicurava che un tempo era percorribile per almeno 30 metri e che al suo termine vi erano accenni a diramazioni (CALLERI 1985). Da notare che questa zona coincide con quelle ricordate da Nicolis di Robilant e da Rolfo.
Fui io, nel settembre del 1987, ad esplorare la galleria di C. Piattola, invitato da Calleri. Egli aveva ottenuto il placet del proprietario ed aveva predisposto un sentiero, sfoltendo i fitti rovi che interessavano tutto il versante occidentale del terrazzo sul quale sorge la cascina. All’appuntamento erano presenti, avvertiti da lui, il capo delle guardie della Riserva, con altra giovane guardia, l’arch. Mauro Vercellotti, autore di scavi e ritrovamenti nella Bessa, Giuliano Ramella, assessore alla cultura del comune di Biella e Mario Pozzo, direttore della rivista 30 Giorni Biella. Fui accompagnato all’ingresso della galleria, o meglio, di una ripida discenderia che si apriva a metà circa nella parete di un terrazzo alto una ventina di metri, in materiale sabbioso e ghiaioso a discreta coerenza, circa 300 metri a nord-ovest della cascina. Sul fondo della discenderia, a circa 15 metri di profondità, si vedeva un grosso mucchio di terra, evidentemente franata dall’alto, con un possibile stretto passaggio. Mi calai sul fondo e, scavando un po’ con le mani, un po’ col mio martello da geologo, riuscii ad aprire un varco sufficientemente ampio per passare: poco più di un metro e mi trovai nella galleria vera e propria, larga un paio di metri ed alta poco più di uno, ma era evidente che il pavimento era ricoperto da qualche decimetro di terra convogliatovi dentro dalle piogge, ed infatti in alcuni punti, nonostante il periodo secco, persistevano delle piccole pozzanghere. La galleria si sviluppava in piano, in direzione nord, per circa 15 metri, ma a qualche metro dall’inizio si apriva, sulla destra, un ampia camera, dalla quale partiva un accenno di galleria nella stessa direzione di quella principale. Gli scavi si sviluppavano alla base di un banco potente 3-4 metri, attraversato dalla parte finale della discenderia, costituito da grossi ciottoli e massi voluminosi immersi in una matrice sabbioso-ghiaiosa, il tutto discretamente cementato e di aspetto fresco, privo cioè di quella alterazione argillosa rossastra che caratterizza i depositi più antichi: si trattava di uno strato alluvionale fluvioglaciale o postglaciale, analogo ad altri che avevo analizzato in affioramento, in alcune parti della Bessa, e nei quali avevo riscontrato tenori d’oro fino a qualche diecina di grammi per metro cubo (PIPINO 1998).
Grattando in diversi punti con la punta del martello, riuscii a raccogliere in un sacco di plastica una decina di chili di materiale sabbioso - ghiaioso, col quale ritornai in superficie. Ci recammo quindi, tutti assieme, nel vicino torrente Olobbia dove lavai con pazienza tutto il materiale col mio piatto, recuperando una decina di minuscole scagliette e un po’ di polverina d’oro.
Calleri volle poi portarci a vedere una discreta distesa a cumuli di ciottoli (testimonianza di antiche aurifodine, nota di Z.G.), analoghi a quelli della Bessa, che si trova oltre il terrazzo della Piattola, al di là di un piccoli rivo, mucchi poco noti, tanto che non erano stati inseriti nei confini della Riserva. Lo stesso Calleri cercò in seguito di interessare la Soprintendenza Archeologica, ma la cosa non la riguardava perché, gli dissero, le emergenze erano esterne alla Riserva. L' "avventura" fu raccontata nella rivista "30 Giorni Biella" da un "anonimo" (1987), probabilmente dallo stesso direttore, che aveva scattato le foto che illustrano l’articolo.
l cumuli di ciottoli di C. Piattola non sono i soli, fuori dalla Riserva, perché lungo lo stesso allineamento, a sud-est, ma soprattutto a nord-ovest, potei in seguito appurare che ce ne sono altri, e tutti posti al di là di uno stretto terrazzo che si sviluppa lungo la destra orografica del T. Olobbia, da Bornasco a Vignassa, inciso nella parte finale dal Riale della Valle Sorda e da quello di C. Piattola: il più esteso si trova presso il Mulino del Ghé ed è delimitato dalla Valle Sorda.
La galleria visitata interessa la parte finale di questo terrazzo, e così pure quella segnalata nelle vicinanze, mentre quella segnalata di fronte alla frazione Filippi si troverebbe agli inizi dello stesso. Quasi al centro si trova un’altra galleria, che potei intravedere grazie alle segnalazioni di persone del posto. Questa si apriva nella parete orientale del terrazzo nei pressi della "sorgente solforosa", qualche decina di metri al di là della strada provinciale, più o meno a livello del manto stradale, 4-5 metri sotto il ciglio e ad una altezza di oltre
50 metri dall’alveo del sottostante torrente Olobbia: secondo le indicazioni, si svilupperebbe per un centinaio metri e, verso la fine dell’ultima guerra, nel corso di rastrellamenti tedeschi, era servita da rifugio ai partigiani locali. Al tempo della mia visita (1988), si vedeva bene una discenderia, del tutto analoga a quella di cascina Piattola ed interessante sedimenti sabbiosi simili, ma aperta soltanto per 6-7 metri mentre il fondo era completamente ostruito da terreno franato dall’alto. Sullo stesso fianco, una decina di metri più in basso, affiora il banco a ciottoli grossolani che, evidentemente, doveva essere raggiunto dalla discenderia ed interessato dal percorso in galleria: alcuni campioni, raccolti da questo strato, evidenziarono discreti contenuti d'oro. Il banco aurifero, in questo caso, poggia visibilmente su una potente successione ghiaiosa, sabbiosa e limosa di origine lacustre che gli fa da letto, ed è ricoperto da non meno di 10 metri di sedimenti sabbioso-ghiaiosi di deposito alluvionale o fluvioglaciale.
Potei poi osservare l’accesso ad altra galleria dall’altra parte della Bessa e dell’Elvo, sul fronte del terrazzo sul quale sorge la cascina Loccone, lungo il quale sono anche presenti cumuli di ciottoli poco noti ed esterni ai confini della Riserva. In questo caso il terrazzo, evidentemente eroso da antiche piene del torrente, è alto meno di 5 metri e la discenderia interessa quasi subito lo strato grossolano, ma l’interno è completamente ostruito. Da notare che questo strato alimenta, nel corso delle piene, le "punte" aurifere che si trovano più a valle (PIPINO 1998).

Non sono riuscito a rintracciare la galleria segnalata da CLEMENTE (1971) dall’altra parte dell’Elvo, a sud di Mongrando, il cui accesso, stando alla foto pubblicata, è del tutto analogo a quello del terrazzo del Loccone. Secondo l’ubicazione in carta, esso doveva trovarsi nell’area della cava Fiora, poco a nord degli impianti, ed è proprio qui che si può ancora notare un isolotto residuo di deposito alluvionale, alto una decina di metri, la cui parte basale è visibilmente costituita da uno strato di materiale grossolano, spesso 3-4 metri. Mi fu anche segnalato un altro imbocco di galleria all’interno della cava, ma non mi fu consentito di vederla.
Il terrazzo della Cascina Loccone, così come quello dell’Olobbia, fanno quindi parte essenziale delle aurifodine, ed è auspicabile che vengano conservati quanto e più dei cumuli di ciottoli e dei conoidi artificiali di sabbie e ghiaie che rappresentano i residui delle lavorazioni, in quanto possono fornire informazioni indispensabili per il riconoscimento delle tecniche di sfruttamento. Inoltre, il loro studio può fornire preziose informazioni per correggere gli errori di carattere geologico e giacimentologico che interessano l’area.

 

                                                                                   Giuseppe Pipino

 

 

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