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Morena descrizione

 

 

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Seconda pagina della vasta relazione del dott. Pipino riguardante la Bessa in generale, la Serra d'Ivrea nel dettaglio e l'oro presente in detta area. E' qui distribuita in quattro pagine e pone finalmente chiarezza su tutto l'argomento.

 

Anfiteatro morenico, depositi auriferi e limes romano.

 

L’Anfiteatro Morenico d’Ivrea è costituito, come è noto, da diversi e successivi accumuli di materiale morenico, proveniente dalla Valle d’Aosta, trascinato a valle e deposto in archi morenici concentrici. Se ne possono contare da 12 a 20, depositati in diversi episodi delle tre glaciazioni nostrane meglio rappresentate, da quella più antica ed esterna del Mindel (Quaternario inferiore), a quella mediana del Riss (Quaternario medio), a quella più recente ed interna del Wurm (Quaternario superiore), succedutesi da un milione a 20 mila anni fa, circa. I depositi rissiani sono quelli più estesi e continui e, da un semplice sguardo alla carta geologica, appare che nel corso della loro avanzata hanno sfondato quelli mindeliani, lasciandone consistenti residui solo ai lati.

Nella parte terminale del ghiacciaio sono stati coinvolti, nel trasporto e nell’accumulo caotico, anche i conoidi fluviali, formatisi nelle fasi pre e inter-glaciali, e parte dei sedimenti marini, pliocenici e oligocenici, deposti nel mare interno che riempiva il bacino padano agli inizi dell’Era Glaciale. Secondo BRUNO (1877), la diffusione dei lembi sedimentari proverebbe che “…tutta la morena frontale e l’esterno dell’orientale sono costituite da un unico e solo banco di sabbie stratificate racchiudenti in molti punti fossili pliocenici”: in effetti si tratta di frammenti discontinui, per lo più rimaneggiati, come hanno evidenziato autori successivi, in particolare MARCO (1892), e le perforazioni eseguite dall’AGIP, nel corso del Novecento, dimostrato che gli strati pliocenici si estendono con continuità, e con rilevanti spessori, al disotto della coltre alluvionale esterna all’Anfiteatro.

La Dora Baltea taglia profondamente la parte più meridionale del complesso morenico, cosa che avrebbe provocato, contrariamente ad altri edifici simili e vicini (Lago Maggiore, Lago di Como, etc.), lo svuotamento di un bacino interno formatosi dopo l’ultima glaciazione. Del “grande lago” restano alcuni residui, conservatisi grazie al maggior affossamento del terreno nel quale si trovano: il Lago di Viverone, il Lago di Candia e alcuni altri, di molto minor estensione. Lo svuotamento, secondo SACCO (1928), sarebbe iniziato circa 10.000 anni fa, dopo l’ultima glaciazione, e, da allora, il livello della Dora Baltea si sarebbe gradualmente abbassato, da quota 290 a 205 metri circa. Attuali esponenti della scuola geologica torinese negano, invece, che sia esistito un unico grande lago interno, almeno dopo l’ultima glaciazione. All’esistenza di un grande lago interno fa riferimento la tradizione locale, secondo la quale la soglia di Mazzé fu fatta aprire dalla regina Yppa per aver terre coltivabili (APPIA 1970): da notare che la regina, descritta un po’ maga e un po’ strega, trova riscontri in analoghi personaggi delle leggende celtiche di tutta Europa. La tradizione è, in qualche modo, avallata da fonti storiche: in Tolomeo (II sec. d.C.) è segnalata la presenza di un Lago Pennino e nel Trecento, come si ricava da AZARIO, era ancora vivo il ricordo dello svuotamento del grande lago per erosione della soglia di Mazzé; nella contea di Masino, secondo lo stesso Autore, si trovavano mura di un antico porto lacustre, con infissi anelli di ferro per legarvi le barche, mentre ai suoi tempi dal lago di Viverone usciva ancora “…un piccolo corso d’acqua, sotto Azeglio, che si getta nella Dora presso Vestigne”. In effetti, il Lago di Viverone viene tradizionalmente indicato col nome di Lago d’Azeglio, località che oggi dista un paio di chilometri dalle sponde dello specchio d’acqua ma che fino a non molto tempo fa si trovava sulla riva, come dimostrano le locali caratteristiche paleo-ambientali, compreso il paleo-alveo del corso d’acqua citato da Azario, ancora ben evidente: la superficie del lago, che oggi si trova a 230 m, doveva quindi essere, in epoca abbastanza recente, notevolmente più alta.

 

Bessa, mappa dall'alto.

 

All’esterno dell’Anfiteatro si trovano, otre a quelli della Dora Baltea, evidenti terrazzamenti a lato di molti antichi emissari, dei quali restano i paleo-alvei, e la fuoriuscita delle acque non sembra essere avvenuta esclusivamente dai valichi, talora troppo elevati (fino a q 300 e oltre), ma, come osservato da SACCO (1928), vi possono essere stati deflussi per “trapelazione attraverso la permeabile morena”: l’esempio più evidente, mi pare di vedere, è quello dell’imponente doppia vallata Areglio-Marmarola, estesamente terrazzata sin dalle origini, che trae origine dal fianco sud-orientale del Bric Camolesa (q 450) e da quello meridionale del vicino Bric del Lupo (q 410). Il fronte dell’anfiteatro si è quindi comportato, per lungo periodo, come un vero e proprio colabrodo, con formazione di incisioni vallive e terrazzamenti più o meno estesi e, spesso, a gradinata, cosa che può essere giustificata soltanto dalla persistente presenza di un bacino interno.

I terrazzi esterni più alti ed antichi sono in contatto immediato con depositi morenici rissiani e sono costituiti da depositi fluvioglaciali formati per rimaneggiamento di quelli, in periodi interglaciali o postglaciale Riss. Il rimaneggiamento ha comportato una selezione dei materiali e un arricchimento di rocce e minerali più resistenti all’alterazione, compreso quarzo e oro che, come è noto, sono molto diffusi in Valle d’Aosta, specie nella Valle dell’Evançon, e sono ovviamente distribuiti in maniera casuale nel materiale trascinato dai ghiacciai. Va notato, per l’argomento che ci interessa, che l’abbondanza di quarzo in depositi alluvionali è quasi sempre indizio di abbondanza d’oro e che gli antichi lo sapevano, stando a quanto riferisce Etico nel IV secolo, parlando della Britannia.

La relativa ricchezza d’oro nei nostri depositi fluvioglaciali non poteva sfuggire alle antiche popolazioni locali ed ha incentivato le pratiche di raccolta che hanno lasciato testimonianze, più o meno evidenti, rintracciabili là dove è logico aspettarsele, cioè sui terrazzi alti formati dalle fiumane esterne, ai lati delle paleo-valli. Va detto che essi sono spesso poco visibili, sia perché il sistema di coltivazione utilizzato è in prevalenza minimale, tipo fosse contigue, probabilmente utilizzato dai nativi (Salassi) prima dell’intervento romano, sia perché interessati, nei secoli successivi, da bonifiche agrarie, taglio di boschi, scavo di canali irrigui e costruzione di muretti, di contenimento e confinari, con l’utilizzo dei ciottoli residui delle lavorazioni, quando non asportazione per altre costruzioni, più o meno vicine, o, nel caso del quarzo, per utilizzo industriale. In questi ultimi tempi, inoltre, gli antichi scavi sono sempre più interessati, e obliterati, da discariche abusive di rifiuti ingombranti. Le fosse hanno diametro variabile da pochi metri a venti e, sono oggi poco profonde, a causa dei successivi riempimenti di foglie e altro, ma in qualche caso si spingono ancora a profondità di 5-6 metri. Sono in genere ravvicinate, ma quasi mai tangenti, e tra di loro si elevano piccole dune irregolari, di dimensioni limitate e raramente più alte di un metro, che, quando scoperte dal fogliame che le copre, in tutto o in parte, appaiono costituite da materiale ghiaioso e ciottoloso sciolto e pulito, con diametro variabile dal centimetro ai 20-30 e bordi generalmente ben arrotondati. Solo a Mazzé e in alcuni punti della vallata Areglio-Marmarola si ha la presenza di grandi cumuli geometricamente allineati, composti da grossi ciottoli equidimensionali, analoghi a quelli presenti nelle aurifodine dell’Ovadese, della Bessa e della Valle del Ticino, e, probabilmente, come quelli dovuti alle capacità tecnico-organizzative e all’autorità dei Romani.

Caratteristiche comuni e peculiari dei depositi, oltre alla precisa collocazione geomorfologica, sono natura e forma dei costituenti. Si tratta sempre di materiale sciolto, ben lavato, con assenza di sabbia e limo; ghiaie e ciottoli presentano un elevato grado di arrotondamento degli spigoli, ma accanto ad essi si trovano sporadici massi di notevole dimensione, dal mezzo metro a più metri cubi, con spigoli vivi o poco arrotondati; la composizione litologica dei clasti denuncia la provenienza valdostana, ma con assoluta assenza di rocce sedimentarie e di rocce magmatiche e metamorfiche alterabili (graniti, calcescisti, etc.) e, al contrario, con arricchimento di litotipi piuttosto rari in giacitura primaria, ma molto resistenti all’alterazione e alle sollecitazioni meccaniche. Si tratta, in prevalenza, di rocce verdi, gneiss, micascisti, granuliti, porfidi e porfiriti, quarziti e quarzo: fra le rocce verdi, oltre all’onnipresente serpentinite, si nota la discreta abbondanza di anfiboliti ed eclogiti; il quarzo, che è sempre molto abbondante e nella frazione ghiaiosa può raggiungere e superare il 50% del tutto, è presente sia nella varietà bianco lattea, cariata, sia, e con maggiore diffusione, nella varietà ialina, con aspetto madreperlaceo e tonalità di vario colore, specie giallastre, per micro-diffusione di ossidi. Mi piace chiamare, quest’ultima varietà, di “tipo Brusson”, perché è simile a quella che costituisce i filoni auriferi diffusi in quella località e in tutta la Valle d’Ayas (o dell’Evançon), dai quali proviene in gran parte.

I massi irregolari, che raggiungono agevolmente il metro di lunghezza e possono localmente superare i due metri,sono prevalentemente composti da micascisti, serpentiniti o quarzo: si trovano dispersi o ammucchiati assieme nelle vicinanze dei mucchi di ciottoli e, spesso, vanno a far parte di muri e massicciate circostanti.

Appare evidente, dalle caratteristiche citate, che i nostri resti facevano parte di materiali stati soggetti a prolungati dilavamenti e trasporti, tipici di sedimenti fluvioglaciali, ed eventuali rimaneggiamenti “minerari”, successivi alla loro deposizione, possono averli in parte scompaginati e averne ridotto le dimensioni, ma non hanno influito sulla loro natura e sulla loro precisa e significativa ubicazione. Quanto all’età delle coltivazioni, sappiamo che alcuni dei resti erano già noti a metà del Settecento e attribuiti ad epoca romana, periodo per il quale abbiamo le uniche testimonianze storiche; non possono essere medievali, in quanto nessun Autore e nessun documento di quell’epoca ne parla, mentre parlano, invece, della semplice raccolta nei fiumi. In alcuni casi i nostri resti si trovano in località designate col nome di Bose o derivati, nome che credo valga la pena di analizzare, anche perché può essere indicativo di altre situazioni che non ci riguardano e non vanno confuse con le nostre. Il toponimo è, infatti, piuttosto diffuso in tutta la zona circostante l’anfiteatro morenico col significato, nei dialetti canavesano, vercellese e biellese, di avvallamento, buca; nel dialetto (lombardo) del novarese significa buca, tomba, e si confonde con la dicitura busa, molto utilizzata nelle regioni più orientali (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto). Vale ancora la pena di ricordare che in linguaggio tardo-latino, come attesta il dizionario DuCange, busa aveva il significato di canale d’acqua estratto dai fiumi ad usi diversi. Storicamente, col nome bose, o piscine, venivano anche indicati, nelle nostre zone, piccoli bacini artificiali per la raccolta di acqua piovana, ma questi, che servivano essenzialmente a soddisfare necessità agricole di pianura, oltre ad essere più estesi ed isolati, necessitavano di un fondo impermeabile poco profondo, condizione, anche questa, generalmente incompatibile con i depositi fluvioglaciali dei terrazzi oggetto di coltivazioni aurifere. A monte dei resti di coltivazioni si sviluppa localmente un cordone continuo di sassi sciolti che divide il versante canavesano da quello vercellese. Autori recenti lo accomunano a strutture analoghe più settentrionali, il tutto a costituire le cosiddette “chiuse longobarde” partorite dalla fantasia di un fantasioso autore trecentesco (Jacopo d’Acqui): le costruzioni, nel complesso, costituirebbero una imponente linea fortificata costruita dai Longobardi per difendersi dalla calata dei Franchi (RONDOLINO 1904, RAMASCO et AL. 1975, ecc.). In realtà, nelle descrizioni degli Autori citati vengono messe assieme costruzioni ad andamento diverso, di epoca varia e diversa tipologia, per lo più muretti confinari, massicciate di contenimento e cordoni di sassi di rigetto ai bordi di campi coltivati, talora ammucchiati su strutture naturali. È il caso, in particolare, della “Maserassa”, un lungo cordone di sassi ritenuto molto significativo a sostegno della tesi, benché abbia andamento ortogonale a quello delle presunte “chiuse”. Essa si sviluppa per circa 200 metri in direzione nord, con altezza variabile dai 3 ai 6 metri e sezione tronco-conica, 15-20 metri alla base, pochi metri in cima. Ora, il taglio della strada per C. Roleto, all’inizio del cordone, mostra chiaramente che l’anima è costituita da materiale morenico “naturale”, largo una diecina di metri, sul quale sono ammucchiati, ai due lati, sassi sciolti eliminati, con piena evidenza, dai limitrofi campi coltivati, perfettamente puliti, di C. Coniglio e di C. Roleto. Di più, oltre C. Roleto si trova un altro cordone morenico, parallelo al primo e di analoga lunghezza, che essendo più largo (25-30 m) è stato terrazzato nel senso della lunghezza e messo a coltivazione arborea.

Il nostro “limes” è in realtà più esterno e meno evidente, trattandosi di un piccolo cordone di sassi sciolti, alto al massimo tre metri e largo due-tre metri alla base, meno di due in cima, che si sviluppa lungo le creste spartiacque seguendone l’andamento zig-zagante, sempre a monte e poco distante dai probabili resti di aurifodine più montani, dai quali pare abbia tratto parte dei ciottoli costituenti. È ben visibile lungo la cresta Bric Barricate- Bric Camolesa-Sapel da Bras, anche se nell’ultimo tratto fa da fondo ad una strada carrareccia; ricompare con evidenza in vari tratti della cresta da Bric Mezzacosta al Bric della Vigna, per scendere poi al Sapel da Mur e proseguire, con maggiore continuità, lunghe le cresta del M. Magnano e del Montemaggiore, con breve interruzione nel fondo della vallecola che viene da C. Lovisso. Da notare che proprio sul cordone, nel versante destro di questa vallecola, si trovano i resti della C. Torana (Torrana), evidente avamposto (medioevale?) a guardia della gola: dai ruderi, e dal cordone, si sviluppa verso sud una imponente massicciata di contenimento fatta con pietre angolose, visibilmente più recente ed estranea al nostro “limes”. Questo prosegue, oltre la vallecola, fino a Cavaglià, per poi rientrare verso nord, con varie evidenze, lungo la Serra d’Ivrea: è ben visibile sulle creste sopra Dorzano e S. Secondo e, nei pressi del primo paese, è visibilmente tagliato da una strada carrareccia che dalla chiesa di S. Rocco sale a C. Bosi.

C’è da dire che, prima di essere fuorviato dalla lettura di Jacopo d’Acqui, RONDOLINO (1882) aveva visto, in questi resti, un sistema difensivo costruito dai Levi vercellesi contro i Salassi, in occasione delle controversie narrate da Strabone. Le argomentazioni pseudostoriche e toponomastiche di Jacopo d’Acqui, e quelle aggiuntive di RONDOLINO (1904), sono state recentemente confutate dalla MOLLO (1986), la quale aggiunge che, per quanto riguarda le murature a secco, in assenza di reperti è impossibile stabilirne la data: tuttavia, continua, “…è verosimile che nella zona del lago di Viverone si trovassero delle difese probabilmente pre-romane, o comunque anteriori al XIV secolo, che possono aver suggerito a Iacopo d’Acqui la suggestiva ricostruzione”.

A mio parere, le vicende narrate da Strabone e da altri autori classici, sono più che sufficienti a giustificare la costruzione di una linea di difesa, o semplicemente di confine, nei quarant’anni di contrastato possesso delle aurifodinae da parte dei Romani (140-100 a.C.).

 

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