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Oro dell'ovadese e G. Aina

 

 

pubblicazione di Miniere d'Oro(2003) web.tiscali.it/minieredoro(2004) www.minieredoro(2006 / 2023)

 

 

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Pubblicato su Gente/Gioia nel 1965 e qui adattato secondo le esigenze del Sito

                                           Dal nostro inviato speciale,,Ovada, mese di maggio

Con un nuovo procedimento, un industriale che già separa rame dalle rocce, si propone di estrarre tutto l’oro contenuto nelle vecchie zone aurifere dei laghi della Lavagnina, nel basso Piemonte. L’impresa comincerà tra breve e rinnoverà con mezzi moderni i tentativi che già in epoca romana vennero eseguiti con lavori sicuramente imponenti.

Oro nei monti di Ovada

Tra qualche settimana Giovanni Aina e suo figlio Luciano si infileranno con un autocarro su certe montagne che sono sopra Lerma, in quel di Ovada, lo caricheranno di rocce giallastre e se le porteranno a Farini d’Olmo, a 50 Km. Da Piacenza, dove abitano e dove possiedono una avviata azienda mineraria. Triteranno queste rocce nei frantoi di loro invenzione e costruzione, faranno passare la polvere sottile così ottenuta attraverso una serie di bagni in acidi diversi, e ne otterranno oro.

Se questo oro sarà più di un grammo per quintale, allora torneranno nell’Ovadese, apriranno una strada che arrivi sulla cima delle montagne prescelte e cominceranno a demolirle, passandole al “tritacarne”: in altre parole, estrarranno dalla zona tutte le molecole d’oro che essa contiene. Con ogni probabilità ne contiene molte, forse più di quanto, già oggi, è lecito sperare.

IL TIPICO COLORE DEI CAMPIONI POTENZIALMENTE AURIFERI IN VAL GORZENTE.La notizia, sbagliata, della “scoperta dell’oro” (sbagliata perché non si tratta certo di una "scoperta", bensì di cosa più che nota) in questo tranquillo angolo del Piemonte ha subito acceso le fantasie e dato la stura alle chiacchiere. Tutte le popolazioni, di Lerma come di Silvano, di Casaleggio come di Mornese, sono state percorse da un brivido di eccitazione, quasi risvegliate da un torpore secolare alla magica parola. Qui, infatti, l’oro è di casa e la natura ne parla incessantemente, ad ogni passo: qui le lunghe e doloranti teorie di schiavi romani hanno rimosso, in secoli di duro lavoro, quegli enormi ciottoli rosastri che si notano ammucchiati sui due greti del fiume Gorzente, l’antico Amporium dei latini. Qui, in epoca più tarda, sono arrivati i Saraceni, attratti dallo stesso miraggio: e poi i monaci, pii ed industriosi, del monastero di San Salvatore di Pavia, autorizzati nel 712 a "lavare" l’oro dalle sabbie miracolose con una donazione di Liutprando (riconfermata nel 1.121 da Callisto II, Papa) cui seguirono, all’estinguersi dell’ordine, alessandrini, genovesi e persino quel milanese maresciallo Botta - Adorno che fece di sé stesso una celebrità nel 1714 per aver dichiarato, scatenando le ire e le sassate dei “Balilla”, che non avrebbe lasciato ai genovesi altro che gli occhi per piangere.

Sempre sulle piste dell’oro e risalendo nei secoli, ecco arrivare ditte inglesi e francesi, spagnole ed americane, dedite tutte a traforare i monti con centinaia di gallerie: l’Ottocento è l’epoca del vero "golden rush", della corsa all’oro piemontese. La produzione annuale del “giallo signore” di questa ristretta zona aumenta sino a 50 chili, ed affluiscono capitali sempre nuovi, sempre nuove braccia che non esitano di fronte alle fatiche sovraumane di bucare la montagna nei suoi recessi più impervi.

Quando si trova un filone, i minatori accendono grandi fuochi di gioia, e la ditta imprenditrice paga tre giornate di salario in più. Ad ogni istante sembra di aver messo le mani sul "vero" filone che farà del Piemonte la seconda edizione della California e del Klondike, ma le speranze cadono ad una ad una con l’inizio del secolo seguente: le ditte falliscono in rapida successione e se ne vanno di furia, abbandonando i costosi impianti trascinati con grandi sforzi sino lassù. Nessuno si preoccupa delle vecchie gallerie abbandonate, nelle quali i massicci tronchi imputridiscono lentamente. Ogni tanto si sente un cupo rombo, e la terra freme leggermente: un braccio, una galleria intera sono franati, distruggendo il lavoro da " talpe" degli uomini.

La cartina indica tutte le zone del Piemonte che hanno presentato nei secoli un interesse aurifero. Attualmente (1965) si estrae oro soltanto da Macugnaga, in piccole quantità e comunque con procedimenti industrializzati.

Col fascismo c’è una ripresa. Delle miniere si interessa Italo Balbo, Campanelli, pare su mandato dello stesso maresciallo: ma scambia volgare quarzite per oro, come già successo ai minatori improvvisati di tutto il mondo. Si ostina per un poco, poi pianta li tutto, disgustato. Con la seconda guerra mondiale arrivano anche i tedeschi: silenziosi ed efficienti danno la caccia ai partigiani, nascosti nelle "miniere degli antichi", come le chiamano qui. Ma prelevano anche campioni di roccia, li analizzano, ritornano, studiano e dopo la guerra, ogni tanto, capitano curiose comitive di studenti di Monaco o Amburgo guidati dai loro professori di mineralogia: questi scalano le balze rocciose come capre, scendono nelle fratte e si mettono in tasca campioni con bigliettini attaccati.

I montanari della zona li osservano, scrutano sospettosi, sofferenti ogni volta del crudele sospetto che vive in loro da quando sono nati, cioè che un giorno arriverà qualcuno e si porterà via l’oro che dorme qui sotto da secoli, inviolato. Ma ad arrivare, con idee fresche ed una esperienza nuova, è stato un italiano, appunto Giovanni Aina, colui che non crede ai filoni, alle pepite, al "colpo di fortuna". Ha sessanta anni, un volto cotto dal sole e dalle esalazioni degli acidi: parla lentamente, con qualche sforzo, ma si nota subito nelle sue parole una placida arguzia perché da uomo ne ha viste tante. Prima dell’ultima guerra, quando capitò dalle parti di Farini d’Olmo assieme ad un amico che, appunto, ricercava minerali, gli si accese dentro un guizzo e comprese che quello era il suo mestiere, andare in giro per le montagne deserte a cercare quegli strani sassi lucenti, dalle meravigliose forme cristalline, che poi si trasformano in rame, in zolfo, in calce, in argento.

Giovanni Aina aveva evidentemente  sentito giusto, perché adesso è uno dei tre "coltivatori" di rame in Italia. Ha ottenuto una grande concessione nelle montagne sopra Ferriere di Piacenza (anche qui terreni già conosciuti sin dall’epoca romana) ed ha cominciato a portare alla sua fabbrica camionate su camionate di rocce. Prima le frantuma in pezzatura grossa, poi passa il materiale così ottenuto in un immenso tamburo rotante di robustissimo acciaio caricato con sessanta quintali di grosse palle di ferro, che macinano tutto quanto; infine "flotta" la polverina che ottiene attraverso varie vasche, nelle quali cade goccia a goccia, e per ognuna, un acido diverso. E’ sorprendente osservare come sulla superficie liquida della prima si formi una specie di schiuma scura che nelle successive diventa sempre più chiara e luminosa: in quelle schiume, il rame si concentra sempre più, finché nell’ultima ha un titolo del 19 o 20 per cento. Quando Aina è arrivato a questo, fa seccare il materiale e lo vende alle fonderie belghe, francesi e spagnole, a navi intere. Chi lo assiste in queste operazioni sono i due suoi straordinari figlioli, Luciano, che è il maggiore e Clara, chiamata la "chimica" della famiglia: mentre Luciano, un ragazzo alto e allampanato corre su e giù per le montagne a cercare campioni di minerali, Clara li prende con le sue mani delicate, li sminuzza, li passa e ripassa nelle sue storte e provette per titolarli, per vedere quale segreto rinchiudono. Dalle sue labbra pende l’intera famiglia: dal responso che darà, dipende l’aver fatto o no il "colpo grosso".

Questo “colpo grosso” pare ci sia stato qualche settimana fa, quando Giovanni è ritornato dalla zona di Lerma (AL) con un paio di chili di campioni prelevati dopo due giorni di ricerche. Clara ha compiuto con minuzia e maggiore attenzione del solito tutta la complicata trafila delle sue operazioni e poi ha dato la grande notizia: in quei campioni c’era all’incirca un grammo e mezzo di oro per quintale, cioè almeno la metà in più di quanto si considera il limite utile economico di sfruttamento. Gli Aina non si sono messi a ballare di gioia perché una lunga esperienza li ha abituati a non farsi illusioni e a non correre con la fantasia, ma ne sentivano una gran voglia, tanto più che avevano fatto le cose per bene: va notato infatti che invece di prelevare campioni "ricchi", cioè delle zone sicuramente aurifere, avevano intenzionalmente portato a casa presunti prelievi poveri, in modo da esser sicuri che, comunque, il minimo industriale fosse realmente tale.

Il programma di Giovanni Aina, a questo punto, è stato semplice: ha chiesto quello che per l’antiquata legge mineraria italiana si chiama un "permesso di ricerca". Appena lo avrà, eseguirà nella zona coperta dal permesso saggi più abbondanti, estesi, e quindi, se Clara, china sui suoi strumenti, dirà ancora una volta di sì, costruirà una strada di accesso alla concessione e passerà al setaccio la montagna intera: indifferente al percorso dei filoni, alle indicazioni lasciate dai romani, saraceni ed inglesi, si baserà soltanto sul titolo minimo complessivo dell’intera montagna. La sua persuasione è che in ogni chilo di roccia, in ogni metro cubo di terra, ci sia un minimo di oro allo stato diffuso. Coi suoi frantoi, con le vasche, egli lo tirerà fuori. Si trova nella stessa situazione dello scienziato che pensa all’oro contenuto nel mare: ve n'è 0,065 grammi per tonnellata d’acqua e vi sono 1.367 milioni di chilometri cubi di oceani che fasciano la terra.

Quanto a dire che il mare custodisce circa 89 miliardi di tonnellate d’oro, che attendono chi riesca a separarle con un metodo più redditizio di quello che costa.

Ho chiesto ad Aina per quale ragione un’idea così semplice fosse venuta a lui, e non ad una grande industria, o agli stessi ricercatori che si sono succeduti nei secoli. Mi è parso imbarazzato, come se stentasse ad attribuirsi qualche merito, e poi mi ha detto: "vede, non è così facile come sembra: intanto bisogna correre dei rischi, perché non è possibile determinare prima quale sarà il costo complessivo di un ciclo completo di estrazione e lavorazione. Poi bisogna avere le macchine: ogni metallo, si può dire, esige un tipo di macchina diverso, e non ne esistono in commercio. Bisogna fabbricarsele da sé , studiando ed adattando: per questo, mio figlio è veramente in gamba. Pensa giorno e notte a come può superare questa o quella difficoltà, e realizza la macchina apposta. Infine bisogna avere le concessioni e dimostrare che si intende fare un lavoro serio: tutte queste condizioni non si trovano quasi mai riunite in una sola persona, e questa è la spiegazione".

Un’ora in salita .

IL TIPICO COLORE DEI CAMPIONI POTENZIALMENTE AURIFERI IN VAL GORZENTE.Siamo andati anche a trovare l’oro, sopra i laghi artificiali della Lavagnina, in una delle regioni più deserte del Piemonte: monti brulli, aguzzi, percorsi da un vento teso che sale a impetuose folate dal mare di Liguria per abbattersi nella vallata dell’Orba, come rovinando per una scabra discesa. Ai laghi bisogna lasciare la macchina, traversare la cresta di una diga potente e rassegnarsi ad imboccare un erto tratturo: dopo un’ora di salita ansimante, si arriva alla zona delle gallerie, scure ed umide nel fianco della montagna. Ancora mezz’ora e siamo sotto la vetta: qui sotto i piedi c’è l’oro, c’è anche Berto Ferrando, una figura di vecchio minatore balzato fuori digetto dalle pagine di “Radiosa aurora” di London.

Ha settant’anni, diritto, screpolato e sano come un fuso vecchio. Ride volentieri, e quando lo fa, compare una doppia fila di denti che pochi quarantenni possono vantare. Fa un freddo da cime alte, ma Berto indossa una semplice canottiera, una camicia a scacchi di colore incerto, una giacchetta di tela militare: è venuto verso di noi salendo dal basso come un camoscio, senza alcuno sforzo.

“Oro, cari signori – risponde – qui ce n’è quanto si vuole, ma non lo sanno cercare. Perché l’oro è come una strada: ci si cammina sopra e dapprincipio si trovano poche case, poi sempre di più, e poi la città ricca. Così è l’oro, bisogna non scoraggiarsi: io conosco gallerie che sono arrivate a cinque, quattro, magari ad un solo metro dal punto ricco, e invece si sono fermate li”.

“Allora, perché non lo cerca e non lo trova lei, questo oro?”.

Il filone è qui sotto.

Scrolla le spalle: "Io sono povero, ci vuol materiali e denaro, pagare i permessi: e poi salta fuori l’agente delle tasse. L’anno scorso un giornale scrisse che un montanaro aveva indicato dove si trovava un filone: e venne un professore, su dalla città, a gridare infuriato che era proibito dare indicazioni e che ci avrebbe fatto arrestare tutti quanti".

"In ogni modo lei sa dove si trova, l’oro?"

Fa un gesto ampio: “Vede, il filone comincia qui sotto, prosegue attraverso la montagna, gira in quella valle, e poi va di là verso la Liguria: ma è come un ramo d’albero, con tanti rametti secondari, tanti filoncini che potrebbero dare bene”. 

Ci accompagna alle gallerie, buchi neri nel fianco della montagna, non più alte all’imbocco delle spalle di un uomo. E quasi tutte di difficile accesso: l’immaginazione crea subito in quella solitudine le teorie degli schiavi che dovevano avvicendarsi come formiche lì dentro, per portare alla luce le rocce gialle più ricche. Poi andiamo alla sua baita a bere la limpida acqua di montagna: fa uno strano effetto sapere che ogni bicchiere di quel liquido purissimo e freddo contiene un milligrammo d’oro. Ma Berto lo sa, mi racconta dei suoi amici montanari che costruivano le loro baite accanto ad uno dei mille ruscelletti che scendono dal monte: ci mettevano dentro una strana scaletta di legno a gradini rientranti e ogni tanto ritiravano la minuta polverina d’oro che l'acqua vi lasciava (NOTA DI ZG: più che la semplice e sola acqua, anche il terriccio che vi scorreva insieme, immagino, dando così l'opportunità alla strana scaletta di lavare e trattenere l'oro). Ogni settimana o due ne cavavano un bottiglino, e allora scendevano ad Ovada a venderlo. “Ma ora – scuote la testa Berto – qui non c’è più nessuno. E io invece vorrei che tornassero, come ai bei tempi. Perché qui l’oro c’è, basta trovarlo”. 

Guardo il monte: a osservarlo bene, ora che l’occhio si è adattato, si nota qualcosa di innaturale, come se le linee dei dossi fossero turbate, sconvolte. Berto me lo spiega: secondo lui qui, "al tempo degli antichi" sorgeva un'altra cresta, un altro monte. Ma se lo sono portato via tutto nei secoli, sminuzzandolo, triturandolo, frugandolo alla ricerca dell’oro: l’erba è ricresciuta in mezzo alle solitarie piante abbarbicate alle pareti della montagna, ed ogni cosa, in questo alto silenzio, sembra immemore e nuova. Eppure, dacché siamo quassù, in qualche modo siamo cambiati: la magia sottile dell’oro ha preso anche noi, guardiamo attentamente per terra, scendendo, facendo caso che non affiori ...  una gialla, lucente pepita. 

                                                                            Franco Bandini 

                                                                                   Foto di Aldo Patellani

 

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